Il latte
Il latte è il primo vitale alimento
dei cuccioli di ogni specie di mammiferi secreto
dalla ghiandola mammaria delle femmine, per questo
si chiamano così. Finito lo svezzamento, però, solo
i cuccioli d'uomo continuano a consumarlo, in
quantità variabili a seconda dei paesi, delle mode a
seguito dell'eredità genetica.
Studi archeologici confermano che
l'introduzione del latte extraspecie
nell'alimentazione umana era già comune in Anatolia
8000 anni fa, come dimostrano la presenza di grassi
del latte nel pentolame. Circa 7000 anni fa era
usato nei carpazi e pochi secoli dopo nelle isole
Britanniche. È molto probabile che inizialmente il
latte venisse solo trasformato per produrre
yogurt e formaggi, fornendo in questo modo un
mezzo di conservazione, facilitandone il trasporto e
riducendo il contenuto di lattosio.
Tutti i mammiferi
neonati, compreso l’uomo, possiedono un enzima, la
lattasi, che nel duodeno,
nell’intestino tenue, svolge il compito di scindere
lo zucchero contenuto nel latte, il lattosio,
che è un disaccaride che per poter essere sfruttato
come fonte di energia deve essere scomposto nei due
zuccheri semplici di cui è composto: il glucosio e
il galattosio. Alla fine dello svezzamento, quando
cambia la dieta, produzione dell’enzima dovrebbe
calare e tra i cinque e i dieci anni cessare quasi
del tutto.
Grazie all’analisi del genoma si è
capito che la produzione della lattasi é regolata da
un singolo gene sul cromosoma 2 e la capacità di
digerire da adulti il
lattosio per la
maggior parte delle persone,
è dovuta ad una mutazione genetica presente
negli individui “lattasi
persistenti”. Gli antenati del Neolitico non erano
ancora in grado di farlo perché la mutazione è
apparsa in tempi più recenti. Questo tratto
geneticamente dominante é comparso e si è diffuso
meno di 10.000 anni fa in alcune popolazioni dedite
alla pastorizia solo dopo l’abitudine, culturalmente
trasmessa, di nutrirsi con il latte munto. In Africa
e in Medio Oriente sono state riscontrare mutazioni
in zone diverse del DNA, dall’origine indipendente,
ma dagli effetti analoghi: anche da adulti la
lattasi continua a essere prodotta, ed è molto
probabile che altre mutazioni simili verranno
scoperte nelle varie popolazioni lattasi persistenti
nel mondo, come l’India.
La mutazione ha donato un vantaggio
evolutivo a chi la possedeva e ai loro
discendenti rispetto a coloro che non la
possedevano, e con il passare delle generazioni
(“solo” 400) in alcune zone è diventata dominante,
perché chi poteva bere latte aveva maggiori
probabilità di sopravvivere e di fare più
figli e quindi di trasmettere quella mutazione in
misura maggiore rispetto a chi non la possedeva.
Alcuni pensano che nelle zone del
Nord Europa, con una bassa esposizione solare,
l’assunzione di latte fresco possa aver fornito una
preziosa fonte di calcio e vitamina D,
sostanza che nei paesi più a sud viene prodotta
nella pelle per azione della luce solare o
assimilata da una dieta ricca di pesce. La vitamina
D regola l’assorbimento del calcio e quindi
l’assunzione di latte fresco avrebbe potuto
scongiurare l’insorgere di malattie come il
rachitismo. In zone aride come l’Africa invece la
spiegazione più probabile è che la possibilità di
bere latte da adulti abbia fornito un indubbio
vantaggio ai possessori della mutazione, fornendo
l’accesso ad un liquido relativamente non
contaminato e ricco di calorie e nutrienti, evitando
diarree e le conseguenti disidratazioni che potevano
essere anche fatali per coloro incapaci di digerire
il latte. In ogni caso, la diffusione della
mutazione è un fatto accertato e positivo.
Non necessariamente però chi non
produce l’enzima manifesta problemi a consumare
latte. È stato dimostrato come un consumo
giornaliero di lattosio possa a volte selezionare
una flora
batterica intestinale capace di rimuovere i
prodotti della fermentazione e alleviare quindi i
sintomi dell’intolleranza; diversamente il lattosio
che non viene digerito dalla lattasi, o aggredito da
questa flora batterica, passa nel colon dove
incontra altri batteri che lo metabolizzano e
producono acidi grassi e vari gas, tra i quali
l’idrogeno. Ed è proprio la produzione di idrogeno,
che dall’intestino passa nel sangue e da lì nei
polmoni, a essere sfruttata per il test non invasivo
più accurato per verificare l’intolleranza al
lattosio. In più, il lattosio richiama acqua
nell’intestino per effetto osmotico generando quindi
diarrea, crampi, flatulenza e altri spiacevoli
sintomi associati alla cosiddetta “intolleranza al
lattosio”.
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Sino a circa 40 anni fa si
pensava che tutti gli adulti producessero
normalmente la lattasi, ora si sa che è
esattamente il contrario e che i primi studi
avevano generalizzato una situazione
tipicamente europea: solo il 35% degli
esseri umani adulti ha la capacità di
metabolizzare il lattosio mentre il 65% ne é
incapace. In Europa la persistenza della
lattasi è la situazione comune con punte
dell’89%-96% in Scandinavia e nelle isole
Britanniche e percentuali via via più
basse andando verso sud, toccando solo il
15% in Sardegna. È interessante anche notare
come in quei paesi il consumo di latte
fresco sia culturalmente visto come simbolo
di un’alimentazione sana e nutriente.
Questa variazione geografica
la troviamo anche in India: nel nord la
percentuale di adulti che produce lattasi è
del 63%, diminuendo fino al 23% spostandosi
verso sud. Nella maggior parte del resto
dell’Asia e tra le popolazioni native
americane invece la persistenza della
lattasi é molto rara. In Africa la
distribuzione é a macchia di leopardo: tribù
tradizionalmente dedite alla pastorizia
mostrano alti livelli di persistenza
dell’enzima mentre popolazioni contigue ma
non pastorali hanno percentuali molto piú
basse. In Rwanda ad esempio il 92% dei Tutsi
produce l’enzima ma solo il 2% dei Bashi.
Analoga situazione tra Beduini (76%) e
non-Beduini (23%) che vivono nelle stesse
zone. |
L’uomo trae il latte
dalla
vacca, ma non solo,
altre fonti di approvvigionamento sono
rappresentate dalle
bufale, dalle
pecore, dalle
capre, dalle asine e dai
cavalli. Il latte di vacca è il più
raccolto e trova impiego per la vendita diretta e
per le trasformazioni casearie da cui hanno origine
i formaggi,
il burro,
lo yogurt
e la panna.
Tutti i tipi di latte sono composti almeno per l’80%
da acqua, con differenze tra una specie e l’altra.
Tra quelli di largo consumo, il latte bovino è il
più magro (3,1% di grassi). Seguono quello caprino
(3,5%), di bufala (5%) e di pecora (5,5%), ma la
percentuale di grassi che raggiunge valori altissimi
nei mammiferi marini in genere: per esempio nelle
foche e nei cetacei si raggiungono valori superiori
al 50%. Anche artiodattili di climi freddi, come
yak, alci e renne, producono latte a elevatissimo
potere calorico.
La quota di
grassi
presente, come
trigliceridi e
colesterolo,
è variabile. La bevanda intera presenta un contenuto
minimo del 3,5%, quella parzialmente scremata di
poco inferiore al 2% e quella scremata dello 0,3%.
Il latte crudo
(definito con la legge n. 169/89) non è trattato
termicamente e presenta naturalmente una flora
batterica in ragione delle condizioni igieniche di
mungitura e della gestione del raffreddamento nonché
dello stato igienico degli impianti e della loro
gestione. La vendita di "latte crudo" è permessa
entro una zona definita rispetto alla localizzazione
del produttore, solo se l'allevamento di provenienza
ha condizioni igienico sanitarie adeguate.
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Il latte fresco
pastorizzato (anch'esso definito dalla legge
sopraccitata) arriva crudo allo stabilimento di
confezionamento e ivi è sottoposto a un solo
trattamento termico (72°C per 15 secondi) entro 48
ore dalla mungitura. Il latte fresco pastorizzato ha
una bassissima carica batterica e l'assoluta
garanzia di assenza di patogeni verificata ad ogni
ciclo produttivo.
La scrematura del
latte è un procedimento fisico non chimico, utile ad
estrarre la componente grassa dal latte intero,
l'industria utilizza la tecnica della
centrifugazione;
con macchinari che raggiungono 6500- 7000
giri/minuto, l'acqua viene separata dal grasso e
dalle altre componenti
destinate alla produzione del burro.
Mediante la centrifugazione si ottiene
Il latte parzialmente
scremato
(1,5-1,8g/l di lipidi) e quello
scremato (0,3% di lipidi).
Il latte a lunga
conservazione
subisce un trattamento termico che è chiamato
UHT
(Ultra High Temperature) viene portato per
pochi secondi a
140°C e
velocemente raffreddato, in modo da eliminare
qualsiasi forma batterica. Il latte risulta
completamente
sterile.
Nonostante perda parte delle caratteristiche
organolettiche che lo rendono appetibile (è quasi
insapore)
rimane a
livello nutrizionale un ottimo alimento
per l'apporto di grassi, proteine, carboidrati,
vitamine e calcio.
Un
bicchiere di latte può contenere anche una miscela
di ben 20 tra antidolorifici, antibiotici e ormoni
della crescita. Non
si può neanche sottovalutare il fatto che la maggior
parte dei mangimi italiani per animali sono composti
da soia e mais OGM, in quanto importati: quindi ad
eccezione (forse) dei prodotti biologici, buona
parte di ciò che acquistiamo è fatta con latte di
animali alimentati ad OGM.
La verità è che i contaminanti chimici sono presenti
in tutta la catena alimentare, ecco perché è molto
importante scegliere il cibo, tutto il cibo, con
saggezza, quindi è insensato demonizzare un
alimento, qualsiasi alimento.
C’i sono anche teorie che considerano
che il latte animale non è un cibo adatto agli
umani, anzi che è “innaturale”, ma se ci sono
popolazioni che producono la lattasi anche da adulte
o che, se non la producono, per qualche motivo hanno
evoluto una microflora intestinale in grado di
sopperirvi, cosa giustifica il dichiarare inadatto o
innaturale il consumo di latte o derivati?.
È ancora più assurdo parlare di
“innaturalità” del bere latte da adulti considerando
che l’uomo è stato geneticamente “selezionato”per
poterlo fare. Addirittura c’è chi sostiene che il
latte contenga componenti radioattive e causi
tumori, mentre i latti vegetali sono un’ottima
alternativa…
Il sito
http://www.nutrizionenaturale.org/latte/ riporta
risultati
di uno studio effettuato negli USA
durato 10
anni, che ha coinvolto quasi 4000 uomini, sono
sorprendenti: una grande percentuale di coloro che
avevano consumato latte e latticini magri aveva
sviluppato cancro alla prostata. Al contrario, il
latte intero e i suoi derivati aveva contribuito a
proteggere da questa forma di tumore.
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Dal sito
http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/
si apprendono alcuni segreti:
La schiuma perfetta per un
cappuccino dovrebbe avere le bollicine
talmente piccole da non essere quasi
visibili ad occhio nudo, deve essere setosa,
di buona consistenza e scorrevolezza. La
“mano” del barista, con i suoi movimenti, è
fondamentale. La scienza però può fornire
alcune linee guida per la preparazione di un
buon cappuccino. Prima di tutto il latte da
utilizzare: i grassi sono deleteri per la
stabilità della schiuma. Questo effetto lo
possiamo osservare anche aggiungendo
dell’olio a della schiuma ottenuta con del
comune detersivo per piatti sciolto in
acqua. Meno grassi sono presenti nel latte e
più è facile ottenere una schiuma stabile.
Questo significa che con un latte scremato,
solitamente con lo 0.1% di grassi, è molto
facile formare una schiuma persistente. È
leggermente meno facile utilizzando un latte
parzialmente scremato e un po’ più difficile
usando il latte intero, con una percentuale
di grassi attorno al 3.6%. Al palato però la
differenza tra i tipi di latte si sente e il
latte scremato non è solitamente utilizzato
per un buon cappuccino, mentre è da
preferirsi il latte intero.
Usando il latte con più
grassi è fondamentale riuscire a disperdere
più gas possibile durante il tempo di
riscaldamento dovuto al vapore insufflato
nel latte. A questo scopo è importante
partire da latte freddo da frigorifero a
circa 5 °C. Partendo da queste temperature
l’aria si scioglie meglio nel liquido. A
mano a mano che la temperatura si innalza le
proteine del latte si denaturano
parzialmente, cambiando la loro struttura,
contribuendo alla stabilizzazione delle
bollicine. Quando la temperatura ha
raggiunto i 65 °C è ora di togliere la
schiuma e versarla sull’espresso appena
preparato. Partendo da latte freddo abbiamo
più tempo a disposizione per formare la
schiuma prima che il latte raggiunga la
temperatura di 65 °C. Qualcuno suggerisce un
doppio trattamento: portare il latte a 65
°C, raffreddarlo e poi insufflare ancora
vapore. Gli studi però sono discordanti nel
giudicare l’efficacia di questa procedura.
In più vi è il rischio di diluire
eccessivamente la bevanda, visto che alla
fine del trattamento con il vapore il latte
contiene un 10% in più di acqua. |
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Formaggi e latticini
Il più antico reperto ritrovato che
testimonia la produzione del formaggio risale ai
Sumeri, in Mesopotamia, nel III millennio a.C. Altri
documenti risalenti alla stessa epoca testimoniano
la conoscenza dei metodi di lavorazione e produzione
del formaggio anche in Egitto.
Il
formaggio,
per definizione di legge, non è un latticinio. In
latino il termine usato per indicare il formaggio
era caseus; fra i legionari romani si
indicava appunto una "forma" di questo prodotto col
termine de caseus formatus, da qui il termine
formaggio che è ottenuto tramite coagulazione della
parte proteica del latte (caseina) e della parte
grassa per mezzo del caglio.
Il caglio è un enzima
che può avere origine animale, vegetale o
microbica ed è in grado di scindere la
κ-caseina, che è una proteina idrofila (si
scioglie in acqua) presente nel latte e di
provocare la coagulazione delle rimanenti
caseine idrofobe (che non si possono
sciogliere in acqua) e della parte grassa.
Per effetto del caglio la massa proteica che
non si può sciogliere in acqua, precipita
sul fondo a formare la cagliata che consiste
di una massa gelatinosa nelle cui maglie
sono intrappolati i globuli di grasso, che
può essere raccolta e lavorata per generare
il formaggio. |
Si distinguono in
formaggi a pasta molle, con un residuo di acqua
superiore al 45%; a pasta semidura, se il residuo
d'acqua è compreso tra il 40 e il 45%; a pasta dura,
quando il residuo di acqua è inferiore al 40%;
freschi e stagionati.
Materia
prima essenziale per fare il formaggio è il latte, i
globuli di grasso che lo compongono riflettono tutte
le frequenze della luce e quindi danno al latte la
colorazione bianca che è sensibilmente diversa a
seconda che il latte venga munto nel periodo
invernale o estivo: più tendente al bianco in
inverno e più tendente al giallo nel periodo estivo,
soprattutto per i formaggi e il burro ”d’alpeggio”,
questa variazione di colore è dovuta alla maggior
presenza di carotenoidi, in particolare di ß
carotene o provitamina A, nei foraggi freschi estivi
che trasmettono la colorazione al latte e di
conseguenza ai prodotti derivati.
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(http://www.rivistadiagraria.org/articoli/anno-2017/colore-del-formaggio/)
Una volta che il latte viene trasformato in
formaggio, la frazione acquosa rimanente, il siero
di latte, si presenta con un colore
giallo/verdognolo, dovuto al suo contenuto in
riboflavina e ad un ridotto contenuto di grassi,
rimasti intrappolati nella matrice caseinica del
formaggio.
La muffa bianche sulla crosta del formaggio è
causata principalmente alle muffe appartenenti ai
generi Penicillium camemberti e Geotrichum
candidum.
Le muffe non hanno “solo” funzione decorativa, sono
delle sensazionali produttrici di enzimi idrolitici
che svolgono la loro azione sulle proteine e sui
grassi del formaggio, staccando piccole porzioni
proteiche e lipidiche che determinano l’intenso
profumo e sapore.
Due esempi di formaggi prodotti con questa tecnica,
sono il Brie e il Camembert. Questi si
presentano ricoperti da Penicillium camemberti,
il quale oltre che a conferire il candido aspetto ai
due formaggi, svolge una importante funzione nella
maturazione dei due prodotti. Queste muffe iniziano
la maturazione del formaggio dalla crosta verso il
centro. Questo tipo di maturazione è chiamato
”centripeto” ed è evidente una volta che il
formaggio è maturo, in quanto dopo il taglio della
forma si vede chiaramente come la porzione di
formaggio immediatamente sotto la crosta sia molto
morbida e possa arrivare a sciogliersi con
l’avanzamento della stagionatura.
Altre muffe sono la causa del colore blu
presente nella pasta di alcuni tipi di formaggio, la
disposizione ordinata, generalmente verticale, è
dovuta al fatto che le muffe per svilupparsi
necessitano della presenza di ossigeno e quindi le
forme di formaggio, dopo alcuni giorni dalla
produzione, vengono di proposito forate, per
consentire l’ingresso dell’ossigeno ed il
conseguente sviluppo delle muffe.
L’azione idrolitica delle muffe sui costituenti del
formaggio svolge un ruolo molto importante sul gusto
ed il profumo del prodotto.
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I
latticini invece sono derivati
del latte, ma non subiscono la coagulazione della
caseina che è la principale proteina presente nel
latte fresco, ma diversi processi di lavorazione;
rappresentati di questa classe sono la panna, il
burro, il
mascarpone, la ricotta, e lo yogurt.
La panna è costituita dalla
parte grassa del latte, ottenuta per centrifugazione
o per affioramento in seguito a decantazione lenta.
Il burro è prodotto dalla
lavorazione della panna (o crema di latte), con
formazione di un'emulsione.
Il
mascarpone
non viene prodotto con il caglio ottenuto dal latte,
bensì dalla crema del latte (panna), tramite la
coagulazione acido-termica della panna. Per far
coagulare le proteine, si agisce su due fronti:
riscaldando prima la panna a 80-90°C, per
acidificarla successivamente con acido citrico o
succo di limone. Ed è proprio la combinazione di
calore ed acidità a facilitare il processo di
coagulazione delle proteine.
Purtroppo una nota
dolente relativa al consumo di questo alimento è
quella relativa alla ricchezza di grassi, e di
conseguenza di colesterolo, presenti, parliamo di
oltre 450 calorie ogni 100 grammi di prodotto, che
consigliano di non abusare nel consumo.
Un trucco per
rendere meno calorica una crema a base di mascarpone
è quello di sostituire circa 1/3 del mascarpone con
ricotta, che pure ha discreti livelli di cremosità
ma una quantità di calorie decisamente inferiore.
Anche la ricotta
pur essendo un latticino non la si può considerare
un formaggio, infatti non deriva dalla coagulazione
della caseina ma dalla coagulazione delle proteine
del latte contenute nel siero rimasto dalla cagliata
del formaggio precedente prodotto; deriva
dall’ulteriore cottura (la ricotta si chiama così
perché viene cotta due volte!) del siero del latte,
il liquido che residua dalla lavorazione del
formaggio.
Il siero del latte è
ricco di sieroproteine, bisogna riscaldarlo a 60°C,
aggiungere il sale e il latte fresco pastorizzato,
per migliorare la resa finale della ricotta.
Infatti, uno dei più grossi inconvenienti
riguardanti la produzione di questo latticino
consiste proprio nella sua resa, estremamente
scarsa. Si pensi che per ottenere circa 500 g di
ricotta si dovrebbe avere a disposizione 9-10 litri
di siero del latte! Dunque, per ottimizzare la resa,
è possibile aggiungere un po’ di latte fresco. Al
raggiungimento dei 90°C bisogna acidificare il
liquido aggiungendo il 2% di g di acido citrico
(sciolto in acqua a 35°C)
oppure una pari
quantità di aceto o limone.
L’acidificante deve
avvenire in un preciso momento, ovvero quando il
liquido ha raggiunto i 90°C: l’inserimento
anticipato dell’acido citrico potrebbe provocare una
precipitazione non omogenea. I fiocchi di ricotta
dovrebbero iniziare ad affiorare, si continua la
cottura a 90° per 5 minuti, lasciando riposare
successivamente per altri 10 minuti (a fuoco spento)
trasferendo la massa delicata in fuscelle e
lasciando sgocciolate la ricotta per 15-30 minuti.
È possibile anche stagionare la
ricotta: in questo caso, il sale va aggiunto solo
alla fine. Inoltre, il tempo di sgocciolamento dev’essere
però protratto per 24 ore, al termine delle quali è
possibile distribuire il sale lungo tutta la
superficie. Eseguita la salatura, disporre la
formina su un piatto e lasciarla esposta all’aria
per 12-15 giorni, eliminando il siero man mano che
si deposita.
Lo yogurt, , viene preparato
grazie all’aggiunta di fermenti lattici nel latte, i
quali a seguito di un processo fermentativo degli
zuccheri presenti nel latte cioè si trasforma il
lattosio in acido lattico.
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